AvvertenzaValutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come⭐ Sufficiente⭐ ⭐ Più che discreto⭐ ⭐ ⭐ Buono⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ EccellenteLa mia valutazione su questo libro:Finché avrà voce, Malalai Joya continuerà a combattere. Contro i signori della guerra, contro l’oppressione delle donne afghane. Lo si capisce sin dalle prime pagine. Non è un’opera letteraria nel senso canonico, né un saggio accademico. Sta a mezza via tra un memoir e un documento-testimone. La voce è tutt'altro che sommessa. Forse perché Joya, attivista e parlamentare afghana, è abituata a vibrarla bene per farsi ascoltare. È per questo che attraversa il testo come una corrente elettrica: non cerca di abbellire nulla, cerca la verità. E in questo riesce, pur sempre con una sorta di grazia interiore — ma forse sarebbe più giusto dire con una sapiente risolutezza femminile.Nel 2003, a soli 25 anni, ha denunciato pubblicamente la presenza di criminali di guerra nella Loya Jirga, l’assemblea costituente afghana, subendo da allora minacce di morte e aggressioni. Il testo diventa così una glossa vivente, un commento continuo alla storia recente dell’Afghanistan, scritto da chi l’ha vissuta sulla propria pelle.Il libro si presenta come un’autobiografia militante, con una struttura cronologica che segue la vita di Joya dalla nascita nei campi profughi in Pakistan, alla sua crescita come maestra "clandestina" sotto i talebani, fino alla sua elezione nel Parlamento afghano e alla successiva espulsione. Il tono è diretto, spesso incalzante, con una lingua che non indulge in metafore ma che, proprio per questo, acquista una sua forza lirica: la lirica della denuncia. Non c’è spazio per l’ambiguità: ogni parola è scelta per colpire, per smascherare. Tutti, senza sconti: signori della guerra, talebani, occupanti occidentali, corrotti. Ognuno ha una parte da interprete: nominato, accusato, inchiodato.Nel 2005 è stata eletta al Parlamento afghano, ma nel 2007 è stata sospesa per aver criticato apertamente i suoi colleghi. Da allora vive sotto scorta, spesso in esilio, continuando a denunciare le connivenze tra poteri locali e interessi internazionali. La BBC l’ha definita “la donna più coraggiosa dell’Afghanistan”.A ripensare a come Finché avrò voce si ponga nei confronti di chi lo legge, potremmo suddividerlo in tre flussi tematici che si intrecciano: il corpo come campo di battaglia, la voce come arma, la resistenza come destino. Il corpo è, manco a dirlo, quello femminile — il corpo della bambina che cresce tra le bombe, il corpo della donna che sfida il potere. Joya racconta di minacce, aggressioni, tentativi di silenziamento. Ma il corpo non si piega: si espone, si flette, matura e si politicizza. La voce, poi, è l’arma più affilata: il titolo stesso è una dichiarazione di intenti. Finché avrò voce, parlerò. E la voce di Joya — la vera forza di questo documento — è quella di milioni di donne afghane che non possono parlare. Il libro diventa così un megafono collettivo, una testimonianza di fede nell'umanità che racconta il dolore e la speranza. Una voce che non chiede il permesso, ma pretende ascolto. Infine, la resistenza come destino: come in molti altri libri sull'Afghanistan, non c'è redenzione, non c’è un lieto fine. C’è la scelta di resistere, che dopo tanti anni è diventata l’unico vaccino contro la rassegnazione. Joya non si presenta come eroina, ma come una cittadina consapevole. Una “cittadina” coniugata al femminile, a dispetto di chi vorrebbe che la grammatica della storia finisse sempre con il cromosoma Y.La sua lotta è quotidiana, imperfetta, ma assolutamente necessaria. Joya ha dichiarato: “Ho accettato di scrivere il libro solo a tre condizioni: dire la verità, smascherare i fondamentalisti e denunciare l’occupazione statunitense”.Pubblicato in diverse lingue, Finché avrò voce ha avuto una ricezione internazionale significativa, soprattutto nei contesti attenti ai diritti umani e alla condizione femminile. In Italia, il libro è stato accolto con rispetto, ma senza particolare clamore. Forse perché la potenza del libro è anche il suo limite. L’urgenza della testimonianza, la necessità di denunciare, portano talvolta a una semplificazione narrativa. I personaggi sono spesso ridotti a ruoli classificatori: il buono, il cattivo, il traditore. La complessità geopolitica dell’Afghanistan, le ambiguità dell’intervento occidentale, le contraddizioni interne al movimento femminista afghano, sono solo sfiorate.In alcuni passaggi, la narrazione rischia di trasformarsi in pamphlet, perdendo la profondità che una riflessione più articolata avrebbe potuto offrire. Ma forse, come già anticipato, è proprio questa la scelta stilistica: non un saggio, non un romanzo, ma un atto politico. Dove la figura di Joya, pur potente, non è diventata icona mediatica. E questo, paradossalmente, ne preserva l’autenticità. Raggiunge il suo scopo, che non è quello di avvincere e piacere, ma di disturbare. Non cerca il consenso, ma la mobilitazione.Ma è buono, nel senso etico del termine. Buono perché necessario. Buono perché vero. Come già accaduto per Afghanistan, dove Dio viene solo per piangere, anche qui il libro si fa corpo. Corpo che parla, che testimonia, che non arretra. E noi, lettori, non possiamo che ascoltare. Finché avrà voce. E finché avremo orecchie per non voltare lo sguardo.


Avvertenza
Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.
⭐ Sufficiente
⭐ ⭐ Più che discreto
⭐ ⭐ ⭐ Buono
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Eccellente
La mia valutazione su questo libro:
Finché avrà voce, Malalai Joya continuerà a combattere. Contro i signori della guerra, contro l’oppressione delle donne afghane. Lo si capisce sin dalle prime pagine. Non è un’opera letteraria nel senso canonico, né un saggio accademico. Sta a mezza via tra un memoir e un documento-testimone. La voce è tutt'altro che sommessa. Forse perché Joya, attivista e parlamentare afghana, è abituata a vibrarla bene per farsi ascoltare. È per questo che attraversa il testo come una corrente elettrica: non cerca di abbellire nulla, cerca la verità. E in questo riesce, pur sempre con una sorta di grazia interiore — ma forse sarebbe più giusto dire con una sapiente risolutezza femminile.Nel 2003, a soli 25 anni, ha denunciato pubblicamente la presenza di criminali di guerra nella Loya Jirga, l’assemblea costituente afghana, subendo da allora minacce di morte e aggressioni. Il testo diventa così una glossa vivente, un commento continuo alla storia recente dell’Afghanistan, scritto da chi l’ha vissuta sulla propria pelle.Il libro si presenta come un’autobiografia militante, con una struttura cronologica che segue la vita di Joya dalla nascita nei campi profughi in Pakistan, alla sua crescita come maestra "clandestina" sotto i talebani, fino alla sua elezione nel Parlamento afghano e alla successiva espulsione. Il tono è diretto, spesso incalzante, con una lingua che non indulge in metafore ma che, proprio per questo, acquista una sua forza lirica: la lirica della denuncia. Non c’è spazio per l’ambiguità: ogni parola è scelta per colpire, per smascherare. Tutti, senza sconti: signori della guerra, talebani, occupanti occidentali, corrotti. Ognuno ha una parte da interprete: nominato, accusato, inchiodato.Nel 2005 è stata eletta al Parlamento afghano, ma nel 2007 è stata sospesa per aver criticato apertamente i suoi colleghi. Da allora vive sotto scorta, spesso in esilio, continuando a denunciare le connivenze tra poteri locali e interessi internazionali. La BBC l’ha definita “la donna più coraggiosa dell’Afghanistan”.A ripensare a come Finché avrò voce si ponga nei confronti di chi lo legge, potremmo suddividerlo in tre flussi tematici che si intrecciano: il corpo come campo di battaglia, la voce come arma, la resistenza come destino. Il corpo è, manco a dirlo, quello femminile — il corpo della bambina che cresce tra le bombe, il corpo della donna che sfida il potere. Joya racconta di minacce, aggressioni, tentativi di silenziamento. Ma il corpo non si piega: si espone, si flette, matura e si politicizza. La voce, poi, è l’arma più affilata: il titolo stesso è una dichiarazione di intenti. Finché avrò voce, parlerò. E la voce di Joya — la vera forza di questo documento — è quella di milioni di donne afghane che non possono parlare. Il libro diventa così un megafono collettivo, una testimonianza di fede nell'umanità che racconta il dolore e la speranza. Una voce che non chiede il permesso, ma pretende ascolto. Infine, la resistenza come destino: come in molti altri libri sull'Afghanistan, non c'è redenzione, non c’è un lieto fine. C’è la scelta di resistere, che dopo tanti anni è diventata l’unico vaccino contro la rassegnazione. Joya non si presenta come eroina, ma come una cittadina consapevole. Una “cittadina” coniugata al femminile, a dispetto di chi vorrebbe che la grammatica della storia finisse sempre con il cromosoma Y.La sua lotta è quotidiana, imperfetta, ma assolutamente necessaria. Joya ha dichiarato: “Ho accettato di scrivere il libro solo a tre condizioni: dire la verità, smascherare i fondamentalisti e denunciare l’occupazione statunitense”.Pubblicato in diverse lingue, Finché avrò voce ha avuto una ricezione internazionale significativa, soprattutto nei contesti attenti ai diritti umani e alla condizione femminile. In Italia, il libro è stato accolto con rispetto, ma senza particolare clamore. Forse perché la potenza del libro è anche il suo limite. L’urgenza della testimonianza, la necessità di denunciare, portano talvolta a una semplificazione narrativa. I personaggi sono spesso ridotti a ruoli classificatori: il buono, il cattivo, il traditore. La complessità geopolitica dell’Afghanistan, le ambiguità dell’intervento occidentale, le contraddizioni interne al movimento femminista afghano, sono solo sfiorate.In alcuni passaggi, la narrazione rischia di trasformarsi in pamphlet, perdendo la profondità che una riflessione più articolata avrebbe potuto offrire. Ma forse, come già anticipato, è proprio questa la scelta stilistica: non un saggio, non un romanzo, ma un atto politico. Dove la figura di Joya, pur potente, non è diventata icona mediatica. E questo, paradossalmente, ne preserva l’autenticità. Raggiunge il suo scopo, che non è quello di avvincere e piacere, ma di disturbare. Non cerca il consenso, ma la mobilitazione.Ma è buono, nel senso etico del termine. Buono perché necessario. Buono perché vero. Come già accaduto per Afghanistan, dove Dio viene solo per piangere, anche qui il libro si fa corpo. Corpo che parla, che testimonia, che non arretra. E noi, lettori, non possiamo che ascoltare. Finché avrà voce. E finché avremo orecchie per non voltare lo sguardo.


⭐ Sufficiente⭐ ⭐ Più che discreto⭐ ⭐ ⭐ Buono⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ EccellenteLa mia valutazione su questo libro:
Finché avrà voce, Malalai Joya continuerà a combattere. Contro i signori della guerra, contro l’oppressione delle donne afghane. Lo si capisce sin dalle prime pagine. Non è un’opera letteraria nel senso canonico, né un saggio accademico. Sta a mezza via tra un memoir e un documento-testimone. La voce è tutt'altro che sommessa. Forse perché Joya, attivista e parlamentare afghana, è abituata a vibrarla bene per farsi ascoltare. È per questo che attraversa il testo come una corrente elettrica: non cerca di abbellire nulla, cerca la verità. E in questo riesce, pur sempre con una sorta di grazia interiore — ma forse sarebbe più giusto dire con una sapiente risolutezza femminile.
Nel 2003, a soli 25 anni, ha denunciato pubblicamente la presenza di criminali di guerra nella Loya Jirga, l’assemblea costituente afghana, subendo da allora minacce di morte e aggressioni. Il testo diventa così una glossa vivente, un commento continuo alla storia recente dell’Afghanistan, scritto da chi l’ha vissuta sulla propria pelle.
Il libro si presenta come un’autobiografia militante, con una struttura cronologica che segue la vita di Joya dalla nascita nei campi profughi in Pakistan, alla sua crescita come maestra "clandestina" sotto i talebani, fino alla sua elezione nel Parlamento afghano e alla successiva espulsione. Il tono è diretto, spesso incalzante, con una lingua che non indulge in metafore ma che, proprio per questo, acquista una sua forza lirica: la lirica della denuncia. Non c’è spazio per l’ambiguità: ogni parola è scelta per colpire, per smascherare. Tutti, senza sconti: signori della guerra, talebani, occupanti occidentali, corrotti. Ognuno ha una parte da interprete: nominato, accusato, inchiodato.
Nel 2005 è stata eletta al Parlamento afghano, ma nel 2007 è stata sospesa per aver criticato apertamente i suoi colleghi. Da allora vive sotto scorta, spesso in esilio, continuando a denunciare le connivenze tra poteri locali e interessi internazionali. La BBC l’ha definita “la donna più coraggiosa dell’Afghanistan”.
A ripensare a come Finché avrò voce si ponga nei confronti di chi lo legge, potremmo suddividerlo in tre flussi tematici che si intrecciano: il corpo come campo di battaglia, la voce come arma, la resistenza come destino. Il corpo è, manco a dirlo, quello femminile — il corpo della bambina che cresce tra le bombe, il corpo della donna che sfida il potere. Joya racconta di minacce, aggressioni, tentativi di silenziamento. Ma il corpo non si piega: si espone, si flette, matura e si politicizza. La voce, poi, è l’arma più affilata: il titolo stesso è una dichiarazione di intenti. Finché avrò voce, parlerò. E la voce di Joya — la vera forza di questo documento — è quella di milioni di donne afghane che non possono parlare. Il libro diventa così un megafono collettivo, una testimonianza di fede nell'umanità che racconta il dolore e la speranza. Una voce che non chiede il permesso, ma pretende ascolto. Infine, la resistenza come destino: come in molti altri libri sull'Afghanistan, non c'è redenzione, non c’è un lieto fine. C’è la scelta di resistere, che dopo tanti anni è diventata l’unico vaccino contro la rassegnazione. Joya non si presenta come eroina, ma come una cittadina consapevole. Una “cittadina” coniugata al femminile, a dispetto di chi vorrebbe che la grammatica della storia finisse sempre con il cromosoma Y.
La sua lotta è quotidiana, imperfetta, ma assolutamente necessaria. Joya ha dichiarato: “Ho accettato di scrivere il libro solo a tre condizioni: dire la verità, smascherare i fondamentalisti e denunciare l’occupazione statunitense”.
Pubblicato in diverse lingue, Finché avrò voce ha avuto una ricezione internazionale significativa, soprattutto nei contesti attenti ai diritti umani e alla condizione femminile. In Italia, il libro è stato accolto con rispetto, ma senza particolare clamore. Forse perché la potenza del libro è anche il suo limite. L’urgenza della testimonianza, la necessità di denunciare, portano talvolta a una semplificazione narrativa. I personaggi sono spesso ridotti a ruoli classificatori: il buono, il cattivo, il traditore. La complessità geopolitica dell’Afghanistan, le ambiguità dell’intervento occidentale, le contraddizioni interne al movimento femminista afghano, sono solo sfiorate.
In alcuni passaggi, la narrazione rischia di trasformarsi in pamphlet, perdendo la profondità che una riflessione più articolata avrebbe potuto offrire. Ma forse, come già anticipato, è proprio questa la scelta stilistica: non un saggio, non un romanzo, ma un atto politico. Dove la figura di Joya, pur potente, non è diventata icona mediatica. E questo, paradossalmente, ne preserva l’autenticità. Raggiunge il suo scopo, che non è quello di avvincere e piacere, ma di disturbare. Non cerca il consenso, ma la mobilitazione.
Ma è buono, nel senso etico del termine. Buono perché necessario. Buono perché vero. Come già accaduto per Afghanistan, dove Dio viene solo per piangere, anche qui il libro si fa corpo. Corpo che parla, che testimonia, che non arretra. E noi, lettori, non possiamo che ascoltare. Finché avrà voce. E finché avremo orecchie per non voltare lo sguardo.




