062478b4-2a91-4584-9937-3a8d250a85af
062478b4-2a91-4584-9937-3a8d250a85af

Condivi questa pagina con i tuoi amici:

territoridicarta.com - marconundini.it

territoridicarta.com - marconundini.it

Gli articoli del sito

© 2025 Marco Nundini

molte immagini sono fornite da Pixabay.com - AR

Divagazioni, osservazioni e approfondimenti


youtube

Informativa Cookie    Informativa sulla Privacy

Afghanistan: una storia politica e culturale. Thomas Barfield ci invita a disinnescare le semplificazioni

2025-10-24 08:15

Array( [88116] => Array ( [author_name] => Marco Nundini [author_description] => [slug] => marco-nundini )) no author 88274

Libri, marco-nundini, afghanistan, thomas-barfield, libro-su-afghanistan, saggio-barfield, storia-afghanistan,

Afghanistan: una storia politica e culturale. Thomas Barfield ci invita a disinnescare le semplificazioni

un viaggio nella complessità, un atlante critico che restituisce all’Afghanistan la dignità di soggetto storico e culturale, non solo teatro bellico, non s

AvvertenzaValutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come⭐ Sufficiente⭐ ⭐ Più che discreto⭐ ⭐ ⭐ Buono⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ EccellenteLa mia valutazione su questo libro: C’è un luogo al mondo su cui le persone che sanno di meno fanno le affermazioni più categoriche. Così scrive Thomas Barfield, antropologo e studioso di lungo corso, nel suo monumentale Afghanistan: una storia politica e culturale. E già questa frase, che apre il volume come una lama affilata, basterebbe a giustificare la lettura. Ma Barfield non si accontenta di smascherare le semplificazioni: le seziona, le storicizza, le mette in crisi. Il suo saggio è un viaggio nella complessità, un atlante critico che restituisce all’Afghanistan la dignità di soggetto storico e culturale — non solo teatro bellico, non solo pedina geopolitica. E lo fa senza impregnare il racconto storico di retorica politica, e questo, oggi, non è cosa da poco.Il testo, tradotto in italiano da Luigi Giacone per Einaudi, si muove con passo sicuro tra secoli di dominazioni, resistenze, trasformazioni. Dalle antiche civiltà del XVI secolo alla rinascita talebana del XXI, Barfield ricostruisce le trame di un paese che non è mai stato davvero “conquistabile”, ma sempre “negoziabile”. E qui sta il cuore del suo approccio: l’Afghanistan non è un deserto di tribalismo (benché l’equilibrio tribale sia da sempre un punto chiave), né una terra di arretratezza (nonostante le aree rurali siano tra le più marginali del pianeta), ma un sistema politico fluido, capace di adattarsi, assorbire, reinventarsi. Un sistema che ha resistito agli inglesi, ai sovietici, agli americani — non solo con le armi, ma con la logica del compromesso, della frammentazione, della resilienza.Barfield non indulge nel pittoresco né nel pietismo. La sua scrittura è analitica, non arida, semmai talvolta zelantemente accademica — al punto da obbligarci a prestare attenzione, magari tornando indietro tra le righe, come si fa con certi testi che non vogliono essere consumati, ma compresi. Ogni capitolo è un affondo nella struttura profonda del potere afghano: le forme di autorità, le economie locali, le alleanze etniche, le tensioni religiose. Chi legge non si aspetti una narrazione lineare, ma si prepari a seguire una mappa di forze che si intrecciano, si scontrano, si dissolvono. E proprio in questa tessitura — che alterna sapere e sentire — si coglie la cifra del libro: la storia dell’Afghanistan non è una sequenza di eventi, ma una grammatica di sopravvivenza.Il saggio è anche una critica implicita — ma feroce — alla superficialità dell’informazione occidentale. Quella che riduce l’Afghanistan a scenario di guerra, a sfondo per reportage frettolosi — fatti di polvere, bambini, donne invecchiate precocemente e papaveri da oppio — a oggetto di indignazione intermittente. Barfield ci invita a guardare oltre: a capire perché certe strutture resistono, perché certi modelli falliscono, perché la democrazia imposta dall’alto non attecchisce. E lo fa, fortunatamente per chi legge, senza ostentare moralismi, ma con la lucidità di uno storico e la pazienza di un analista.C’è la storia, ma c’è anche l’attualità: i talebani, il collasso economico, la disillusione della società civile. Ma anche qui, Barfield scansa la retorica. Piuttosto, ci mostra come il passato continui a informare il presente, come le logiche tribali e le memorie imperiali si riflettano nelle scelte politiche di oggi. L’Afghanistan non è un’anomalia, ma un prisma che rifrange le contraddizioni del mondo globale.In definitiva, questo saggio è un invito a disinnescare le semplificazioni, a restituire profondità a ciò che viene trattato come superficie. Per chi cerca una lettura che non solo informi, ma trasformi, Afghanistan: una storia politica e culturale è un buon suggerimento di partenza. E per chi, come me, considera la recensione un gesto di testimonianza, è anche un’occasione per dire: non banalizziamo. Cerchiamo di capire la storia. Non smettiamo di pensare.

ff161f2d-fa61-43b2-a3b2-6ec493de96a5.jpg4cbf58d8-488d-4fe1-a155-4446c993cedf.jpg


Avvertenza

Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come
 me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.


⭐ Sufficiente
⭐ ⭐ Più che discreto
⭐ ⭐ ⭐ Buono
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Eccellente

La mia valutazione su questo libro:
C’è un luogo al mondo su cui le persone che sanno di meno fanno le affermazioni più categoriche. Così scrive Thomas Barfield, antropologo e studioso di lungo corso, nel suo monumentale Afghanistan: una storia politica e culturale. E già questa frase, che apre il volume come una lama affilata, basterebbe a giustificare la lettura. Ma Barfield non si accontenta di smascherare le semplificazioni: le seziona, le storicizza, le mette in crisi. Il suo saggio è un viaggio nella complessità, un atlante critico che restituisce all’Afghanistan la dignità di soggetto storico e culturale — non solo teatro bellico, non solo pedina geopolitica. E lo fa senza impregnare il racconto storico di retorica politica, e questo, oggi, non è cosa da poco.Il testo, tradotto in italiano da Luigi Giacone per Einaudi, si muove con passo sicuro tra secoli di dominazioni, resistenze, trasformazioni. Dalle antiche civiltà del XVI secolo alla rinascita talebana del XXI, Barfield ricostruisce le trame di un paese che non è mai stato davvero “conquistabile”, ma sempre “negoziabile”. E qui sta il cuore del suo approccio: l’Afghanistan non è un deserto di tribalismo (benché l’equilibrio tribale sia da sempre un punto chiave), né una terra di arretratezza (nonostante le aree rurali siano tra le più marginali del pianeta), ma un sistema politico fluido, capace di adattarsi, assorbire, reinventarsi. Un sistema che ha resistito agli inglesi, ai sovietici, agli americani — non solo con le armi, ma con la logica del compromesso, della frammentazione, della resilienza.Barfield non indulge nel pittoresco né nel pietismo. La sua scrittura è analitica, non arida, semmai talvolta zelantemente accademica — al punto da obbligarci a prestare attenzione, magari tornando indietro tra le righe, come si fa con certi testi che non vogliono essere consumati, ma compresi. Ogni capitolo è un affondo nella struttura profonda del potere afghano: le forme di autorità, le economie locali, le alleanze etniche, le tensioni religiose. Chi legge non si aspetti una narrazione lineare, ma si prepari a seguire una mappa di forze che si intrecciano, si scontrano, si dissolvono. E proprio in questa tessitura — che alterna sapere e sentire — si coglie la cifra del libro: la storia dell’Afghanistan non è una sequenza di eventi, ma una grammatica di sopravvivenza.Il saggio è anche una critica implicita — ma feroce — alla superficialità dell’informazione occidentale. Quella che riduce l’Afghanistan a scenario di guerra, a sfondo per reportage frettolosi — fatti di polvere, bambini, donne invecchiate precocemente e papaveri da oppio — a oggetto di indignazione intermittente. Barfield ci invita a guardare oltre: a capire perché certe strutture resistono, perché certi modelli falliscono, perché la democrazia imposta dall’alto non attecchisce. E lo fa, fortunatamente per chi legge, senza ostentare moralismi, ma con la lucidità di uno storico e la pazienza di un analista.C’è la storia, ma c’è anche l’attualità: i talebani, il collasso economico, la disillusione della società civile. Ma anche qui, Barfield scansa la retorica. Piuttosto, ci mostra come il passato continui a informare il presente, come le logiche tribali e le memorie imperiali si riflettano nelle scelte politiche di oggi. L’Afghanistan non è un’anomalia, ma un prisma che rifrange le contraddizioni del mondo globale.In definitiva, questo saggio è un invito a disinnescare le semplificazioni, a restituire profondità a ciò che viene trattato come superficie. Per chi cerca una lettura che non solo informi, ma trasformi, Afghanistan: una storia politica e culturale è un buon suggerimento di partenza. E per chi, come me, considera la recensione un gesto di testimonianza, è anche un’occasione per dire: non banalizziamo. Cerchiamo di capire la storia. Non smettiamo di pensare.

ff161f2d-fa61-43b2-a3b2-6ec493de96a5.jpg4cbf58d8-488d-4fe1-a155-4446c993cedf.jpg

⭐ Sufficiente⭐ ⭐ Più che discreto⭐ ⭐ ⭐ Buono⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ EccellenteLa mia valutazione su questo libro:


C’è un luogo al mondo su cui le persone che sanno di meno fanno le affermazioni più categoriche. Così scrive Thomas Barfield, antropologo e studioso di lungo corso, nel suo monumentale Afghanistan: una storia politica e culturale. E già questa frase, che apre il volume come una lama affilata, basterebbe a giustificare la lettura. Ma Barfield non si accontenta di smascherare le semplificazioni: le seziona, le storicizza, le mette in crisi. Il suo saggio è un viaggio nella complessità, un atlante critico che restituisce all’Afghanistan la dignità di soggetto storico e culturale — non solo teatro bellico, non solo pedina geopolitica. E lo fa senza impregnare il racconto storico di retorica politica, e questo, oggi, non è cosa da poco.

Il testo, tradotto in italiano da Luigi Giacone per Einaudi, si muove con passo sicuro tra secoli di dominazioni, resistenze, trasformazioni. Dalle antiche civiltà del XVI secolo alla rinascita talebana del XXI, Barfield ricostruisce le trame di un paese che non è mai stato davvero “conquistabile”, ma sempre “negoziabile”. E qui sta il cuore del suo approccio: l’Afghanistan non è un deserto di tribalismo (benché l’equilibrio tribale sia da sempre un punto chiave), né una terra di arretratezza (nonostante le aree rurali siano tra le più marginali del pianeta), ma un sistema politico fluido, capace di adattarsi, assorbire, reinventarsi. Un sistema che ha resistito agli inglesi, ai sovietici, agli americani — non solo con le armi, ma con la logica del compromesso, della frammentazione, della resilienza.

Barfield non indulge nel pittoresco né nel pietismo. La sua scrittura è analitica, non arida, semmai talvolta zelantemente accademica — al punto da obbligarci a prestare attenzione, magari tornando indietro tra le righe, come si fa con certi testi che non vogliono essere consumati, ma compresi. Ogni capitolo è un affondo nella struttura profonda del potere afghano: le forme di autorità, le economie locali, le alleanze etniche, le tensioni religiose. Chi legge non si aspetti una narrazione lineare, ma si prepari a seguire una mappa di forze che si intrecciano, si scontrano, si dissolvono. E proprio in questa tessitura — che alterna sapere e sentire — si coglie la cifra del libro: la storia dell’Afghanistan non è una sequenza di eventi, ma una grammatica di sopravvivenza.

Il saggio è anche una critica implicita — ma feroce — alla superficialità dell’informazione occidentale. Quella che riduce l’Afghanistan a scenario di guerra, a sfondo per reportage frettolosi — fatti di polvere, bambini, donne invecchiate precocemente e papaveri da oppio — a oggetto di indignazione intermittente. Barfield ci invita a guardare oltre: a capire perché certe strutture resistono, perché certi modelli falliscono, perché la democrazia imposta dall’alto non attecchisce. E lo fa, fortunatamente per chi legge, senza ostentare moralismi, ma con la lucidità di uno storico e la pazienza di un analista.

C’è la storia, ma c’è anche l’attualità: i talebani, il collasso economico, la disillusione della società civile. Ma anche qui, Barfield scansa la retorica. Piuttosto, ci mostra come il passato continui a informare il presente, come le logiche tribali e le memorie imperiali si riflettano nelle scelte politiche di oggi. L’Afghanistan non è un’anomalia, ma un prisma che rifrange le contraddizioni del mondo globale.

In definitiva, questo saggio è un invito a disinnescare le semplificazioni, a restituire profondità a ciò che viene trattato come superficie. Per chi cerca una lettura che non solo informi, ma trasformi, Afghanistan: una storia politica e culturale è un buon suggerimento di partenza. E per chi, come me, considera la recensione un gesto di testimonianza, è anche un’occasione per dire: non banalizziamo. Cerchiamo di capire la storia. Non smettiamo di pensare.