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Tre tazze di tè di Greg Mortenson e David Oliver Relin: nella costruzione del mito, si annida una crepa

2025-10-29 09:29

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Tre tazze di tè di Greg Mortenson e David Oliver Relin: nella costruzione del mito, si annida una crepa

Non va cancellato, ma contestualizzato. Perché anche le storie che vacillano possono insegnare. E forse, proprio lì, nel tè che si raffredda, si nasconde la

⭐ Sufficiente⭐ ⭐ Più che discreto⭐ ⭐ ⭐ Buono⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ EccellenteLa mia valutazione su questo libro: Nel 2006, il libro Tre tazze di tè degli statunitensi Greg Mortenson e David Oliver Relin si presenta al mondo come una testimonianza luminosa: un uomo, un alpinista, si perde sulle montagne del Pakistan e viene accolto dal villaggio di Korphe. In segno di gratitudine, promette di costruire una scuola. Da quel gesto, nasce il Central Asia Institute e una missione: portare istruzione nelle zone più remote di Pakistan e Afghanistan, sfidando talebani, povertà, diffidenza. La narrazione è potente, quasi epica. La frase che dà il titolo al libro — “La prima volta che bevi un tè con uno di noi sei uno straniero; la seconda, un ospite; la terza, parte della famiglia” — diventa emblema di un ponte tra culture. Il libro vende milioni di copie. Mortenson diventa un eroe umanitario. Relin, giornalista e co-autore, si mette al servizio della storia. Ma proprio qui, nella costruzione del mito, si annida la crepa.Nel 2011, il programma 60 Minutes della CBS e il giornalista Jon Krakauer — autore di Nelle terre estreme e Aria sottile — pubblicano un’inchiesta che mette in dubbio la veridicità di molti eventi narrati nel libro. Krakauer, inizialmente sostenitore di Mortenson, cambia rotta e pubblica Three Cups of Deceit (2011), un pamphlet accusatorio. Le accuse sono gravi: molte scuole non sarebbero mai state costruite, i fondi del Central Asia Institute sarebbero stati gestiti in modo opaco, e alcuni episodi chiave — come il rapimento da parte dei talebani — sarebbero stati inventati o distorti. La narrazione si incrina. Il mito si scompone. Mortenson nega, poi ammette parzialmente. Relin, travolto dalla polemica, entra in crisi. Nel 2012 si toglie la vita. Il libro che doveva essere ponte diventa campo di battaglia.La vicenda di Tre tazze di tè non è solo una questione di verità o menzogna. È una riflessione sul potere della narrazione, sulla fame di eroi, sulla fragilità del giornalismo embedded. Relin, secondo molti, fu troppo vicino al suo soggetto. Non verificò, non mise in discussione. Scrisse con passione, ma senza distanza. Il suo stile — coinvolto, lirico, quasi agiografico — contribuì a costruire un’immagine che non reggeva all’urto della realtà. Mortenson, da parte sua, incarnava il sogno americano dell’eroe solitario che cambia il mondo. Ma quel sogno, come spesso accade, aveva bisogno di semplificazioni, di omissioni, di montaggi. La verità, in Afghanistan, è sempre più complessa di quanto un libro possa contenere.Il tè, in molte culture asiatiche, è rito, tempo, relazione. In Tre tazze di tè, diventa metafora di accoglienza. Ma anche di gradualità: lo straniero, l’ospite, il familiare. La narrazione segue questa curva, ma la realtà la spezza. La terza tazza, quella della fiducia, si incrina. E con essa, il patto tra autore e lettore. Il libro resta potente, ma ora è anche documento di una crisi. Crisi del reportage, della testimonianza, dell’umanitarismo spettacolarizzato. La lezione non è solo su Mortenson, ma su come raccontiamo l’Afghanistan, su chi ha il diritto di parlare, su come si costruisce la verità.David Oliver Relin non era un truffatore. Era un giornalista appassionato, forse troppo. La sua morte, tragica, è anche il segno di quanto la tensione tra etica e narrazione possa diventare insostenibile. Il suo stile — coinvolto, empatico, narrativo — è stato strumento e trappola. In un’intervista, disse: “Volevo raccontare una storia che facesse del bene.” Ma il bene, nel mondo reale, ha bisogno di verifica, di dubbio, di complessità.Oggi, Tre tazze di tè, la cui scrittura fluida non pesa, anzi è pure gradevole nel suo tono da biografia filantropica e compassionevole, può essere letto come documento, come mito, come avvertimento. Non va cancellato, ma contestualizzato. Perché anche le storie che vacillano possono insegnare. E forse, proprio lì, nel tè che si raffredda, si nasconde la verità più profonda: quella che ha smesso di avvincere, ma interroga.

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Avvertenza
Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze letterarie, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come
 me. Detto ciò: ogni libro è fatto per essere letto.


⭐ Sufficiente
⭐ ⭐ Più che discreto
⭐ ⭐ ⭐ Buono
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo
⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Eccellente

La mia valutazione su questo libro:
Nel 2006, il libro Tre tazze di tè degli statunitensi Greg Mortenson e David Oliver Relin si presenta al mondo come una testimonianza luminosa: un uomo, un alpinista, si perde sulle montagne del Pakistan e viene accolto dal villaggio di Korphe. In segno di gratitudine, promette di costruire una scuola. Da quel gesto, nasce il Central Asia Institute e una missione: portare istruzione nelle zone più remote di Pakistan e Afghanistan, sfidando talebani, povertà, diffidenza. La narrazione è potente, quasi epica. La frase che dà il titolo al libro — “La prima volta che bevi un tè con uno di noi sei uno straniero; la seconda, un ospite; la terza, parte della famiglia” — diventa emblema di un ponte tra culture. Il libro vende milioni di copie. Mortenson diventa un eroe umanitario. Relin, giornalista e co-autore, si mette al servizio della storia. Ma proprio qui, nella costruzione del mito, si annida la crepa.Nel 2011, il programma 60 Minutes della CBS e il giornalista Jon Krakauer — autore di Nelle terre estreme e Aria sottile — pubblicano un’inchiesta che mette in dubbio la veridicità di molti eventi narrati nel libro. Krakauer, inizialmente sostenitore di Mortenson, cambia rotta e pubblica Three Cups of Deceit (2011), un pamphlet accusatorio. Le accuse sono gravi: molte scuole non sarebbero mai state costruite, i fondi del Central Asia Institute sarebbero stati gestiti in modo opaco, e alcuni episodi chiave — come il rapimento da parte dei talebani — sarebbero stati inventati o distorti. La narrazione si incrina. Il mito si scompone. Mortenson nega, poi ammette parzialmente. Relin, travolto dalla polemica, entra in crisi. Nel 2012 si toglie la vita. Il libro che doveva essere ponte diventa campo di battaglia.La vicenda di Tre tazze di tè non è solo una questione di verità o menzogna. È una riflessione sul potere della narrazione, sulla fame di eroi, sulla fragilità del giornalismo embedded. Relin, secondo molti, fu troppo vicino al suo soggetto. Non verificò, non mise in discussione. Scrisse con passione, ma senza distanza. Il suo stile — coinvolto, lirico, quasi agiografico — contribuì a costruire un’immagine che non reggeva all’urto della realtà. Mortenson, da parte sua, incarnava il sogno americano dell’eroe solitario che cambia il mondo. Ma quel sogno, come spesso accade, aveva bisogno di semplificazioni, di omissioni, di montaggi. La verità, in Afghanistan, è sempre più complessa di quanto un libro possa contenere.Il tè, in molte culture asiatiche, è rito, tempo, relazione. In Tre tazze di tè, diventa metafora di accoglienza. Ma anche di gradualità: lo straniero, l’ospite, il familiare. La narrazione segue questa curva, ma la realtà la spezza. La terza tazza, quella della fiducia, si incrina. E con essa, il patto tra autore e lettore. Il libro resta potente, ma ora è anche documento di una crisi. Crisi del reportage, della testimonianza, dell’umanitarismo spettacolarizzato. La lezione non è solo su Mortenson, ma su come raccontiamo l’Afghanistan, su chi ha il diritto di parlare, su come si costruisce la verità.David Oliver Relin non era un truffatore. Era un giornalista appassionato, forse troppo. La sua morte, tragica, è anche il segno di quanto la tensione tra etica e narrazione possa diventare insostenibile. Il suo stile — coinvolto, empatico, narrativo — è stato strumento e trappola. In un’intervista, disse: “Volevo raccontare una storia che facesse del bene.” Ma il bene, nel mondo reale, ha bisogno di verifica, di dubbio, di complessità.Oggi, Tre tazze di tè, la cui scrittura fluida non pesa, anzi è pure gradevole nel suo tono da biografia filantropica e compassionevole, può essere letto come documento, come mito, come avvertimento. Non va cancellato, ma contestualizzato. Perché anche le storie che vacillano possono insegnare. E forse, proprio lì, nel tè che si raffredda, si nasconde la verità più profonda: quella che ha smesso di avvincere, ma interroga.

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⭐ Sufficiente⭐ ⭐ Più che discreto⭐ ⭐ ⭐ Buono⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ EccellenteLa mia valutazione su questo libro:


Nel 2006, il libro Tre tazze di tè degli statunitensi Greg Mortenson e David Oliver Relin si presenta al mondo come una testimonianza luminosa: un uomo, un alpinista, si perde sulle montagne del Pakistan e viene accolto dal villaggio di Korphe. In segno di gratitudine, promette di costruire una scuola. Da quel gesto, nasce il Central Asia Institute e una missione: portare istruzione nelle zone più remote di Pakistan e Afghanistan, sfidando talebani, povertà, diffidenza. La narrazione è potente, quasi epica. La frase che dà il titolo al libro — “La prima volta che bevi un tè con uno di noi sei uno straniero; la seconda, un ospite; la terza, parte della famiglia” — diventa emblema di un ponte tra culture. Il libro vende milioni di copie. Mortenson diventa un eroe umanitario. Relin, giornalista e co-autore, si mette al servizio della storia. Ma proprio qui, nella costruzione del mito, si annida la crepa.

Nel 2011, il programma 60 Minutes della CBS e il giornalista Jon Krakauer — autore di Nelle terre estreme e Aria sottile — pubblicano un’inchiesta che mette in dubbio la veridicità di molti eventi narrati nel libro. Krakauer, inizialmente sostenitore di Mortenson, cambia rotta e pubblica Three Cups of Deceit (2011), un pamphlet accusatorio. Le accuse sono gravi: molte scuole non sarebbero mai state costruite, i fondi del Central Asia Institute sarebbero stati gestiti in modo opaco, e alcuni episodi chiave — come il rapimento da parte dei talebani — sarebbero stati inventati o distorti. La narrazione si incrina. Il mito si scompone. Mortenson nega, poi ammette parzialmente. Relin, travolto dalla polemica, entra in crisi. Nel 2012 si toglie la vita. Il libro che doveva essere ponte diventa campo di battaglia.

La vicenda di Tre tazze di tè non è solo una questione di verità o menzogna. È una riflessione sul potere della narrazione, sulla fame di eroi, sulla fragilità del giornalismo embedded. Relin, secondo molti, fu troppo vicino al suo soggetto. Non verificò, non mise in discussione. Scrisse con passione, ma senza distanza. Il suo stile — coinvolto, lirico, quasi agiografico — contribuì a costruire un’immagine che non reggeva all’urto della realtà. Mortenson, da parte sua, incarnava il sogno americano dell’eroe solitario che cambia il mondo. Ma quel sogno, come spesso accade, aveva bisogno di semplificazioni, di omissioni, di montaggi. La verità, in Afghanistan, è sempre più complessa di quanto un libro possa contenere.

Il tè, in molte culture asiatiche, è rito, tempo, relazione. In Tre tazze di tè, diventa metafora di accoglienza. Ma anche di gradualità: lo straniero, l’ospite, il familiare. La narrazione segue questa curva, ma la realtà la spezza. La terza tazza, quella della fiducia, si incrina. E con essa, il patto tra autore e lettore. Il libro resta potente, ma ora è anche documento di una crisi. Crisi del reportage, della testimonianza, dell’umanitarismo spettacolarizzato. La lezione non è solo su Mortenson, ma su come raccontiamo l’Afghanistan, su chi ha il diritto di parlare, su come si costruisce la verità.

David Oliver Relin non era un truffatore. Era un giornalista appassionato, forse troppo. La sua morte, tragica, è anche il segno di quanto la tensione tra etica e narrazione possa diventare insostenibile. Il suo stile — coinvolto, empatico, narrativo — è stato strumento e trappola. In un’intervista, disse: “Volevo raccontare una storia che facesse del bene.” Ma il bene, nel mondo reale, ha bisogno di verifica, di dubbio, di complessità.

Oggi, Tre tazze di tè, la cui scrittura fluida non pesa, anzi è pure gradevole nel suo tono da biografia filantropica e compassionevole, può essere letto come documento, come mito, come avvertimento. Non va cancellato, ma contestualizzato. Perché anche le storie che vacillano possono insegnare. E forse, proprio lì, nel tè che si raffredda, si nasconde la verità più profonda: quella che ha smesso di avvincere, ma interroga.