⭐ Sufficiente⭐ ⭐ Più che discreto⭐ ⭐ ⭐ Buono⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ EccellenteLa mia valutazione su questo documentario: Il mezzo televisivo sa anche sorprendere, talvolta. Lo fa con un documentario di respiro internazionale firmato da Mayte Carrasco e Marcel Mettelsiefen: Afghanistan: 20 anni dopo. È uno dei documenti visivo-narrativi che meglio illustrano cos’era e cos’è oggi l’Afghanistan, ma soprattutto — attraverso una scansione temporale ben costruita, scaltra, equilibrata — tenta di restituire dignità narrativa a un Paese che l’informazione generalista ha spesso ridotto a sfondo bellico confuso e incomprensibile. Lo fa con precisione, senza stancare. E lo fa con un gesto che, per chi guarda, è anche una sfida: abbandonare la cronaca e immergersi nella storia.La docuserie — raccolta dalla Rai in due episodi — è un viaggio nella ferita aperta dell’Afghanistan che inizia con lo stupore di una Kabul che ricorda la Teheran pre-islamica: feste da ballo, sfilate di moda, studentesse universitarie in minigonna. Dalla rivoluzione comunista del 1978 fino al ritorno dei talebani nel 2021, il documentario non propone una semplice sequenza di eventi, ma una tessitura curata di voci, immagini e memorie. Carrasco non cerca il sensazionalismo, ma la stratificazione. E in questo, il suo lavoro si avvicina più alla testimonianza che alla narrazione. Gli eventi sono ordinati e messi a fuoco sulla linea del tempo per essere collocati, oltre che compresi.Il montaggio alterna materiali d’archivio e interviste con una cura che non indulge nel pietismo né nella retorica. I volti che parlano — guerriglieri, civili, donne, bambini — non sono comparse nel dramma geopolitico, ma protagonisti di una storia che il mondo occidentale ha spesso preferito ignorare. Proprio in questa scelta di dare parola a chi non l’ha mai avuta, il documentario trova la sua forza: non cerca consolazione, lascia inquietudine. La regia è sobria, non toglie spazio alla storia e permette alla complessità di emergere. L’Afghanistan che vediamo non è quello dei titoli di giornale, ma quello delle contraddizioni: modernità e tradizione, tribalismo e globalizzazione, speranza e disillusione. Carrasco non cerca di risolvere il paradosso, lo mette in scena. E chi guarda si sorprende, ad esempio, nel comprendere che tra le due occupazioni — quella sovietica e quella americana — è stata la guerra civile tra fazioni di mujāhidīn a devastare più di ogni altra cosa il Paese. Al punto che, per disperazione, la popolazione ha accolto i talebani come un’ancora di salvezza.Certo, ci sono momenti in cui la narrazione si fa densa, quasi troppo. Alcuni passaggi storici richiederebbero una pausa, una nota a margine, un respiro. Ma forse è giusto così: la storia dell’Afghanistan non è fatta per essere digerita in fretta. È una grammatica di sopravvivenza, come direbbe Barfield, e questo documentario ne è una delle sue declinazioni più riuscite. Da guardare.

Avvertenza
Valutazione e recensione sono frutto del mio personale gusto individuale, delle mie preferenze, così come la valutazione che assegno. E' quindi più che comprensibile, anzi auspicabile, che molti non la pensino come me. Detto ciò: ogni documentario è fatto per essere guardato.
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⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Eccellente
La mia valutazione su questo documentario:
Il mezzo televisivo sa anche sorprendere, talvolta. Lo fa con un documentario di respiro internazionale firmato da Mayte Carrasco e Marcel Mettelsiefen: Afghanistan: 20 anni dopo. È uno dei documenti visivo-narrativi che meglio illustrano cos’era e cos’è oggi l’Afghanistan, ma soprattutto — attraverso una scansione temporale ben costruita, scaltra, equilibrata — tenta di restituire dignità narrativa a un Paese che l’informazione generalista ha spesso ridotto a sfondo bellico confuso e incomprensibile. Lo fa con precisione, senza stancare. E lo fa con un gesto che, per chi guarda, è anche una sfida: abbandonare la cronaca e immergersi nella storia.La docuserie — raccolta dalla Rai in due episodi — è un viaggio nella ferita aperta dell’Afghanistan che inizia con lo stupore di una Kabul che ricorda la Teheran pre-islamica: feste da ballo, sfilate di moda, studentesse universitarie in minigonna. Dalla rivoluzione comunista del 1978 fino al ritorno dei talebani nel 2021, il documentario non propone una semplice sequenza di eventi, ma una tessitura curata di voci, immagini e memorie. Carrasco non cerca il sensazionalismo, ma la stratificazione. E in questo, il suo lavoro si avvicina più alla testimonianza che alla narrazione. Gli eventi sono ordinati e messi a fuoco sulla linea del tempo per essere collocati, oltre che compresi.Il montaggio alterna materiali d’archivio e interviste con una cura che non indulge nel pietismo né nella retorica. I volti che parlano — guerriglieri, civili, donne, bambini — non sono comparse nel dramma geopolitico, ma protagonisti di una storia che il mondo occidentale ha spesso preferito ignorare. Proprio in questa scelta di dare parola a chi non l’ha mai avuta, il documentario trova la sua forza: non cerca consolazione, lascia inquietudine. La regia è sobria, non toglie spazio alla storia e permette alla complessità di emergere. L’Afghanistan che vediamo non è quello dei titoli di giornale, ma quello delle contraddizioni: modernità e tradizione, tribalismo e globalizzazione, speranza e disillusione. Carrasco non cerca di risolvere il paradosso, lo mette in scena. E chi guarda si sorprende, ad esempio, nel comprendere che tra le due occupazioni — quella sovietica e quella americana — è stata la guerra civile tra fazioni di mujāhidīn a devastare più di ogni altra cosa il Paese. Al punto che, per disperazione, la popolazione ha accolto i talebani come un’ancora di salvezza.Certo, ci sono momenti in cui la narrazione si fa densa, quasi troppo. Alcuni passaggi storici richiederebbero una pausa, una nota a margine, un respiro. Ma forse è giusto così: la storia dell’Afghanistan non è fatta per essere digerita in fretta. È una grammatica di sopravvivenza, come direbbe Barfield, e questo documentario ne è una delle sue declinazioni più riuscite. Da guardare.

⭐ Sufficiente⭐ ⭐ Più che discreto⭐ ⭐ ⭐ Buono⭐ ⭐ ⭐ ⭐ Ottimo⭐ ⭐ ⭐ ⭐ ⭐ EccellenteLa mia valutazione su questo documentario: Mayte Carrasco (Terrassa, 1974) è una giornalista, documentarista e scrittrice spagnola, specializzata in conflitti bellici e diritti umani. Ha lavorato come corrispondente di guerra in zone critiche come Afghanistan, Siria, Libia e Mali, ed è fondatrice della casa di produzione The Big Story Films. Ha ricevuto numerosi premi internazionali. Marcel Mettelsiefen (Monaco di Baviera, 1978) è un regista, fotografo e produttore tedesco, noto per i suoi documentari su zone di conflitto. Ha iniziato come fotoreporter in Medio Oriente, Afghanistan e Sud America. È stato candidato all’Oscar nel 2017 per Watani: My Homeland e ha vinto numerosi premi per opere come Children of the Taliban e In Her Hands.
Il mezzo televisivo sa anche sorprendere, talvolta. Lo fa con un documentario di respiro internazionale firmato da Mayte Carrasco e Marcel Mettelsiefen: Afghanistan: 20 anni dopo. È uno dei documenti visivo-narrativi che meglio illustrano cos’era e cos’è oggi l’Afghanistan, ma soprattutto — attraverso una scansione temporale ben costruita, scaltra, equilibrata — tenta di restituire dignità narrativa a un Paese che l’informazione generalista ha spesso ridotto a sfondo bellico confuso e incomprensibile. Lo fa con precisione, senza stancare. E lo fa con un gesto che, per chi guarda, è anche una sfida: abbandonare la cronaca e immergersi nella storia.
La docuserie — raccolta dalla Rai in due episodi — è un viaggio nella ferita aperta dell’Afghanistan che inizia con lo stupore di una Kabul che ricorda la Teheran pre-islamica: feste da ballo, sfilate di moda, studentesse universitarie in minigonna. Dalla rivoluzione comunista del 1978 fino al ritorno dei talebani nel 2021, il documentario non propone una semplice sequenza di eventi, ma una tessitura curata di voci, immagini e memorie. Carrasco non cerca il sensazionalismo, ma la stratificazione. E in questo, il suo lavoro si avvicina più alla testimonianza che alla narrazione. Gli eventi sono ordinati e messi a fuoco sulla linea del tempo per essere collocati, oltre che compresi.
Il montaggio alterna materiali d’archivio e interviste con una cura che non indulge nel pietismo né nella retorica. I volti che parlano — guerriglieri, civili, donne, bambini — non sono comparse nel dramma geopolitico, ma protagonisti di una storia che il mondo occidentale ha spesso preferito ignorare. Proprio in questa scelta di dare parola a chi non l’ha mai avuta, il documentario trova la sua forza: non cerca consolazione, lascia inquietudine. La regia è sobria, non toglie spazio alla storia e permette alla complessità di emergere. L’Afghanistan che vediamo non è quello dei titoli di giornale, ma quello delle contraddizioni: modernità e tradizione, tribalismo e globalizzazione, speranza e disillusione. Carrasco non cerca di risolvere il paradosso, lo mette in scena. E chi guarda si sorprende, ad esempio, nel comprendere che tra le due occupazioni — quella sovietica e quella americana — è stata la guerra civile tra fazioni di mujāhidīn a devastare più di ogni altra cosa il Paese. Al punto che, per disperazione, la popolazione ha accolto i talebani come un’ancora di salvezza.
Certo, ci sono momenti in cui la narrazione si fa densa, quasi troppo. Alcuni passaggi storici richiederebbero una pausa, una nota a margine, un respiro. Ma forse è giusto così: la storia dell’Afghanistan non è fatta per essere digerita in fretta. È una grammatica di sopravvivenza, come direbbe Barfield, e questo documentario ne è una delle sue declinazioni più riuscite. Da guardare.
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